All’inizio del viaggio vi accennavo di questo progetto, “Un nome e un futuro”. Siamo stati nella sede. È un progetto nato per i bambini di Aleppo Est. È la parte più povera di tutta la città, si vedono gli scheletri della guerra, le case abbandonate, vuote perché vittime dei furti legati all’ISIS, e poi ancora macerie, e questa povertà che vedi e ti fa male.
E in fine, in mezzo a tutto questo, arriviamo alla sede di pTS. Nulla di spettacolare, entri in un palazzo, dopo di te entra una signora completamente coperta, arrivi davanti gli uffici, ti accolgono. Ti giri e vedi la donna che scopre il volto.
Cosa c’è qui, che permette ad una donna musulmana di scoprirsi?
Conosciamo il responsabile del progetto, conosciamo la sua segretaria. Hanno gli occhi belli, vivi.
Ma cos’è “Un nome e un futuro”? È un progetto di pTS, nato nel cuore della guerra e con uno scopo: accogliere quei bambini che non voleva nessuno. Erano i figli della guerra, figli delle violenze dello Stato Islamico, per cui venivano lasciati, abbandonati.
E non avevano neanche un nome.
Cosa c’è di più umano di un nome?
Andiamo da una famiglia di beneficiari. Entriamo in una casa e come prima cosa sento l’odore che c’è. È forte, pungente. Sono pronto a giudicare male. Seguiamo il ragazzo, saliamo le scale. Mi guardo attorno, una stanza piccola con dei materassi, una cucina, poi la sala (delle sedie, una tenda e due tavolini, una piccola tv e basta, nulla di più).
C’è una povertà incredibile. Arriva la mamma e la sorella, sono sorridenti.
Sono una famiglia di nove persone, hanno perso tutto durante la guerra e ora vivono in questa casa, in condivisione con i familiari del padre.
Fanno una domanda ai due figli: “che sogno hai, cosa vuoi fare da grande?”
Ripenso al nome del progetto, “Un nome e un futuro”: io ti chiamo, entro in rapporto con te perché tu possa costruire una vita nuova.
Subito dopo andiamo all’Islam Center. Una donna, musulmana, ha creato 37 anni fa questo centro dove accoglie le persone con dei ritardi.
Ci racconta che ha perso il marito con il nuovo governo, che non ha aiuti dallo stato, che riceve donazioni ma che non sa come andare avanti.
Si occupa di questi ragazzi, delle donne, di questi signori, che nessuno riesce a tenere in casa.
Andiamo a trovarli. Mi vengono in mente le immagini dei vecchi manicomi che c’erano in Italia, penso fossero qualcosa del genere
.
Ci sono in una stanza dei pupazzi. Chissà che nome avranno.
Raggiungiamo i bambini: vedono una madre nella dottoressa che li cura e segue, la abbracciano, la baciano.
Cosa permette questo bene?
Ceniamo con alcuni amici e Jean Francois, che mi racconta la sua vita.
Mi dice che il primo giorno qui ad Aleppo ha avuto un dialogo con alcuni beneficiari.
Gli chiedevano: “Tu sei qui per aiutarci?”
Rispondeva: “No, non posso aiutarvi, ma posso vivere con voi”.
Ecco, in questa dottoressa, nei volontari di pTS, vedo sempre più questa posizione.
A presto, inshallah